«La gente pensa che in montagna il pericolo siano i crepacci o le valanghe, ma nove volte su dieci sono le piccole cose: il sole riflesso sulla neve, una roccia tagliente, un rametto che graffia. La pelle è sempre in prima linea. In quota anche un’abrasione banale brucia per giorni, perché l’aria secca rallenta la guarigione.»

«Chi cammina nei boschi non si rende conto di quante piante possono irritare la pelle. L’ortica è il minimo. C’è la clematide, l’euforbia, il panace di Mantegazza. D’estate, con il sudore, le reazioni si amplificano. Basta toccare una foglia con l’avambraccio nudo per ritrovarsi il bruciore per ore. La conoscenza è la prima protezione.»

«Fotografare in montagna significa restare esposti ore, immobili, spesso in quota. Ti rendi conto di quanto il sole sia aggressivo solo la sera, quando la pelle tira. A 2500 metri non c’è ombra che tenga. L’aria è limpida ma inganna: ti scotti senza accorgertene. La montagna non ti ferisce per cattiveria, ma perché è viva.»

«Nei boschi sopra Aprica corro quasi ogni giorno. Gli insetti sono una costante: tafani, zanzare, zecche. Se non stai attento, te ne accorgi troppo tardi. Molti pensano che il rischio siano solo le cadute, invece il corpo reagisce anche a cose piccole. Bisogna conoscere il proprio ambiente, come fa chi vive in montagna da sempre.»

«Sulle coste del Sulcis il vento porta la sabbia fine che gratta la pelle come vetro. Poi c’è la salsedine, le punture dei pappataci, i fichi d’India. Non serve allarmarsi, ma neppure improvvisare. Ogni territorio ha le sue regole e il rispetto comincia dal sapere cosa può succederti. Chi esplora deve accettare questa parte del gioco.»